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#1 La Critica del Lunedì: Le Notti Bianche

  • Bidu
  • 6 feb 2017
  • Tempo di lettura: 6 min

Eccoci qui per il primo appuntamento con la rubrica del lunedì: volevo chiamarla La rubrica del giorno più triste della settimana, che dovrebbero abolire per il benessere mondiale, ma c'era qualcosa che non mi convinceva...non so, forse "rubrica", però non ne sono sicura.

Comunque, bando alle ciance! Finalmente è arrivato il momento che stavo aspettando, poiché, miei cari bibliofili, il lunedì è il giorno che ho scelto per le recensioni - come potete notare dall'orario, al limitar del giorno - di libri letti dalla sottoscritta.

Primo libro scelto per essere sottoposto a questa tortura è Le Notti Bianche di Dostoevskij, pubblicato nel 1848 sulla rivista Annali Patri.

Il titolo è dovuto all'ambientazione temporale in cui l'autore decide di far accadere i fatti della storia: sono infatti chiamate notti bianche le notti di quel periodo dell'anno in cui, nel nord della Russia, il sole tramonta a sera inoltrata e, dunque, in cui la notte è in parte illuminata dalla sua luce.

L'opera è in realtà un piccolo romanzo che, proprio a causa della sua breve lunghezza, non avrei mai pensato mi sarebbe piaciuto così tanto: Dostoevskij è capace di concentrare in meno di cento pagine più descrizioni, episodi ed emozioni di molti altri libri da trecento e passa pagine che ho letto in passato. Tuttavia, non dovete pensare che si tratti di qualcosa di caotico e confusionario, poiché lo scrittore applica una struttura ben precisa, tramite la quale suddivide la storia in quattro notti seguite da un epilogo, che denomina Mattino, e grazie alle quali riesce a raccontare una di quelle storie d'amore che mi piace paragonare a una lampadina che è sul punto di fulminarsi e che, prima di farlo, sprigiona un ultimo e intenso bagliore.

Dostoevskij decide, quindi, di utilizzare uno stile che ricorda molto quello epistolare. Vorrei precisare che a me solitamente non piacciono i romanzi epistolari, ma posso dirvi che questo riesce a prendere solo gli aspetti positivi di questo genere e che qualsiasi altro metodo di scrittura non avrebbe avuto la stessa capacità di trasmettere le emozioni che l'autore voleva far percepire al lettore: da ogni riga, traspare una parte dell'anima del protagonista, che sembra evaporare ed entrare nella nostra, attraverso le descrizioni della città e i dialoghi con l'unica altra persona con cui entra in contatto il sognatore - così si autodefinisce il narratore, che, ovviamente, scrive in prima persona -, che, però, tendono a diventare quasi dei monologhi, in cui i due personaggi raccontano più la storia della loro vita che i loro pensieri momentanei.

Il tutto è reso stranamente più leggero grazie all'uso di un lessico al confine con l'essere aulico e di una sintassi che sembra anticipare lo stream of consciousness che caratterizzerà i romanzi psicologici del secolo successivo, accomunati anche dagli stessi temi: nonostante sia una storia d'amore - o proprio per questo -, il tema che è più facile notare è il tema della solitudine, che porta inevitabilmente il narratore ad un'autoanalisi e a un abbandono al mondo dei sogni, che lo porterà, come già scritto, ad autodefinirsi sognatore.

Diversamente da quello che si potrebbe dedurre pensando a uno stile epistolare, il protagonista è il personaggio che, una volta voltata l'ultima pagina, conosciamo meno, nonostante ne abbiamo rivestito i panni e ci siamo sentiti così vicini a lui: prima prova di questa mia affermazione è il fatto che non ne conosciamo il nome né l'aspetto fisico né conosciamo veri e propri dettagli del suo passato. Tuttavia, non c'è da stupirsi, anzi, tutto ciò è molto coerente col carattere del sognatore ( unico suo "nome" che ci è dato conoscere ), che tende a osservare ciò che gli accade intorno, senza mai decidere di vivere ed entrare a far parte di quello che è il mondo reale, a cui, però, si può accedere solo compiendo un passo che il ragazzo non è ancora pronto a fare, ovvero aprirsi. Un pregio, però, bisogna concederglielo: il sognatore è colui attraverso il quale riusciamo a conoscere proprio quel mondo in cui non vuole entrare e di cui fa parte anche Nasten'ka, ragazza di cui si innamora subito, al primo sguardo. Inoltre - e io lo definirei ancora un pregio o, meglio, un vantaggio per noi -, riesce a tradirsi e a concedere, anche se solo ai lettori più attenti, di assaporare gli aspetti della sua personalità, da quelli più inquieti e impauriti a quelli più romantici e idilliaci.

La stessa cosa non si può dire di Nasten'ka, la quale subito si apre e diventa un fiume in piena che travolge il lettore con le sue parole e le sue confessioni e i suoi ricordi dal passato - prossimo o remoto che sia -, ma che, non si sa per quale strano motivo, già dall'inizio, dal suo primo incontro, dalla sua prima frase, non convince. C'è qualcosa in lei che ha fatto nascere in me un piccolo dubbio che, pian piano, è cresciuto sempre di più, fino a quando è scoppiato nel gran finale. Di Nasten'ka sappiamo tutto, sappiamo del suo passato difficile a causa della sua convivenza con una nonna troppo protettiva, della sua ultima storia d'amore che l'ha fatta tanto soffrire, dei suoi sentimenti ambigui per il protagonista, delle sue paure, dei suoi sogni ed è forse proprio perché sappiamo tutto di lei che non si aggiudica di certo il posto di personaggio migliore, bensì desta sospetto.

C'è una cosa che però non vi ho ancora detto e che ho preferito lasciare per ultima, poiché costituisce l'aspetto che più ho amato di quest'opera. San Pietroburgo può essere considerata protagonista al pari dell’anonimo narratore e della ragazza di cui si innamora: tra sogno e realtà, la città viene descritta come parte fondamentale nella vita del narratore, infatti, ogni sua singola emozione o sensazione provata si riversa sui vari aspetti della città. Vi è, quindi, una sorta di empatia tra il ragazzo e gli elementi della San Pietroburgo di metà Ottocento, una San Pietroburgo che, durante le notti bianche, è invasa dalla luce anche a tarda ora e che, per l'eterno sognatore che è il narratore, con le sue mille e più facce, è l’unica persona cara e l’unica con cui ha un rapporto di conoscenza e affetto reciproco.

Il protagonista vive a San Pietroburgo da otto anni e, prima di questo momento della sua vita, non è riuscito a fare nessuna conoscenza se non quella con la città stessa; il ragazzo conosce ogni angolo di San Pietroburgo e si sente ancora più vicino a essa ora che quasi tutti i suoi abitanti l’hanno abbandonata per trasferirsi in campagna, come se lui non avesse mai tradito lei e lei non avesse mai tradito lui. Ogni giorno, il sognatore va sul Nevskij, strada principale della città, passeggia tra i giardini e ammira il canale della Fontanka, entrando in contatto sia con la parte più razionale di San Pietroburgo, fatta di vie, larghe prospettive, antichi palazzi, il lungofiume, case in legno da condividere con altri inquilini, appartamenti soffocanti e soffitte buie, sia con la parte più chimerica della stessa, fatta di case che gli corrono incontro e le cui finestre gli parlano, di case ormai intime amiche, di altre che gli confidano le loro paure e le loro gioie, di altre ancora che subiscono quei cambiamenti che il tempo porta in modo inevitabile, dell’eleganza di alcune vie, dell’allegria contagiosa di altre, della calda accoglienza della campagna appena fuori le porte e soprattutto di angoli in cui non brilla lo stesso sole del resto del mondo, bensì un sole diverso, un sole nato appositamente per quegli angoli e per la vita che vi può essere solo ed esclusivamente in essi.

È questa l’immagine che Dostoevskij vuole trasmettere di San Pietroburgo: una città fatta di una vasta gamma di lunghe strade, larghi marciapiedi e luoghi diversi tra loro, da quelli che qualsiasi turista amerebbe a quelli più angusti e stretti per chi ci vive, da quelli più inquietanti per un animo tormentato come quello del narratore durante il Mattino a quelli più consolatori e luminosi nonostante la nebbia e le nuvole di pioggia, dal teatro dell’opera ai mezzanini da affittare a nuovi inquilini, ma, soprattutto, una città che inevitabilmente vive in simbiosi con i suoi abitanti, mutando se stessa pur di andar loro incontro e che durante la primavera sprigiona tutta la sua potenza e si abbellisce grazie alla luce naturale e ai variopinti fiori. Tuttavia, anche San Pietroburgo è mortale o, probabilmente, lo è proprio perché identica ai suoi cittadini: anche lei subisce i danni causati dallo scorrere del tempo, anche lei invecchia, è sempre più stanca, sbiadita e triste, diventa opaca, viene invasa da ragnatele, le sue case si fanno decrepite, i cornicioni si riempiono di crepe, le colonne perdono vitalità e il colore delle pareti degli edifici la loro compattezza per lasciarsi conquistare da chiazze sporche e sconnesse e nessuno salva Pietroburgo, perché è Pietroburgo a salvare i suoi abitanti, non il contrario.

 
 
 

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